Chi non conosce il classico tabellone con le lettere che viene utilizzato per misurare la vista? Si chiama ottotipo per lontano ed è certamente un test familiare a molti. Ma di preciso, cosa misura? I decimi o le diottrie? Qual è la differenza?
Proviamo a sciogliere qualche dubbio e fare un po’ di chiarezza sulla differenza tra decimi e diottrie.
Per definizione, l’ottotipo misura l’acuità visiva, ossia la capacità di un occhio di vedere distintamente un oggetto.
L’ottotipo raffigura dei target (lettere, numeri, o figure) disposti ordinatamente su righe, con dimensione del carattere progressivamente sempre più piccola.
La prima riga in alto contiene gli elementi più grandi e corrisponde a 1/10, mentre la decima riga sarà pari ai 10/10, risultato in genere soddisfacente per i pazienti privi di patologie visive.
È possibile leggere i 10/10 con o senza lenti correttive. Nel primo caso si dice che il paziente ha letto i 10/10 naturali. Spesso chi utilizza gli occhiali e arriva ai 10/10 con la correzione ottica pone la classica domanda “Quanti decimi mi mancano?”.
In realtà la domanda non è posta nel modo corretto: al paziente non mancano decimi, ma piuttosto avrà letto i 10/10 con il supporto di una correzione ottica. L’unità di misura che quantifica il potere della lente necessaria è espressa in diottrie.
Quindi qual è la differenza tra decimi e diottrie? Non si tratta di sinonimi, i termini sono complementari e necessari per poter capire una situazione visiva. Riassumendo il concetto dobbiamo tenere a mente che:
- le righe lette sul tabellone corrispondono ai decimi;
- il potere della lente utilizzata per leggere una determinata riga dell’ottotipo corrisponde alle diottrie.
Ci sono casi patologici in cui la persona non arriva ai 10/10 nemmeno con correzione ottica. Anche in questo caso non si parla di decimi mancanti, ma si quantifica l’acuità visiva prendendo nota della riga letta con o senza correzione ottica.
Leggere i 10/10 significa vedere bene? Non necessariamente, perché quando guardiamo qualcosa dobbiamo considerare l’acuità visiva, ma anche altri fattori tra cui:
- integrità del campo visivo;
- buona sensibilità al contrasto;
- senso cromatico nella norma;
- tempo di adattamento ai cambiamenti di luce nei limiti della norma.
Avere una buona visione è un giudizio unicamente soggettivo. È basato principalmente sul canale visivo, ma anche su sensazioni e percezioni di altra natura che integrano le informazioni visive.
Bisogna tenere in considerazione anche il fattore abitudine: chi non ha mai portato occhiali e non ha mai sviluppato patologie croniche ai danni del sistema visivo tenderà a considerare una buona visione come una visione pressoché perfetta. Cosa che, in genere, non accade per chi fin da bambino ha portato occhiali o comunque ha sviluppato problematiche visive nel corso della vita.